Solo il cuore conosce

Oggi un post un po’ lunghetto ma interessante; c’è da… ragionarci.

henry matisse (icaro) (2)(2).jpgDi solito ne parliamo come di una metafora. Buona, al massimo, per evocare il sentimento. E sviare la ragione dalla (vera) conoscenza. Ma in cosa consiste davvero «quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi»? Il Meeting di Rimini qualche idea ce l’ha. Ecco perché

Il cuore è trattato con condiscendenza e liquidato come una metafora. Lo sentiamo sempre far rima con “amore” e “dolore” in canzoni e poesie che cercano di portare alla luce il livello più profondo dell’umana emozione, ma in un certo senso non riteniamo che esso sia veramente la bussola del sentire. Semplicemente senza pensarci, poniamo il cuore all’estremità inferiore dell’asse della ragione, dove la testa regna sovrana.
Quando “pensiamo” al cuore, pensiamo a una pompa idraulica a cui attribuiamo anche, curiosamente, questa funzione emozionale. Secondo tale convinzione il cuore diviene un segno grafico, un “cuore innamorato” che rievoca la passione, il dolore e la confusione di un legame sentimentale nostalgicamente romantico.
La nostra confusa percezione del cuore rispecchia la confusione sulla nostra natura. Da una parte, non possiamo sfuggire il dato di questo indispensabile organo, un motore che continua a pompare e ad alimentare – per sua natura – l’inizio di ogni cosa. Ma la nostra mentalità razionalista rende sempre più necessario che manteniamo vive almeno due concezioni incompatibili di cuore. L’idea che le nostre vite emotive siano legate a qualcosa di più banale, un congegno che regola delle funzioni, sembra un residuo culturale del tempo in cui si capiva di meno di questo “meccanismo” umano. Ci aspettiamo, un giorno – se procediamo sulla strada su cui stiamo andando -, di arrivare a una formula elettrica entro la quale le cose che ci disturbano (amore, paura, desiderio, passione) saranno identificate come impulsi lanciati qua e là nel circuito della macchina umana. Nel frattempo andiamo avanti con le nostre ricerche come se queste conoscenze fossero già adeguate.
La ragione – l’abbiamo deciso noi – è una consulente sicura e affidabile, come un contabile o un avvocato. A ben guardare, sembra che la ragione abbia deciso questo ruolo di sua spontanea volontà, il che suona come un conflitto di interessi un po’ losco per cui l’avvocato e il contabile rischierebbero di essere tolti di mezzo. Ma il dato di fatto è che intanto il cuore sembra un po’ una seccatura, che ci strattona di qua e di là, incapace di decidersi.

Tra due orecchie. C’è una teoria secondo cui la mente non esiste o, comunque, non si sa dove si trovi. Diamo per scontato che essa si trovi in mezzo alle nostre orecchie, ma non sappiamo ancora collocarla con precisione. Non sembra che la mente esista nello spazio, come un processo chimico o meccanico. Non può essere pesata, né udita o vista, e ciò sembra condurci sempre a un punto morto nella misurazione e nell’oggettivazione. La mente non può essere osservata eccetto che dall’interno o in termini di effetti dei suoi processi. In un certo senso, la mente appare più adatta del cuore a divenire metafora, più soggetta a essere trattata con condiscendenza, perché non è stato trovato nulla nelle sue profondità che corrisponda al suo significato di un mondo di processi meccanici.
Il cuore che batte ogni istante, che pulsa anno dopo anno, è diventato la principale vittima di questa concezione dualistica. Da un lato, è concepito “dall’interno” come uno strumento meccanico, essenziale ma comunque adeguato, e dall’altro viene falsamente e superficialmente incolpato di tutti quei comportamenti piuttosto eccentrici che fanno sì che le nostre menti disperino di riuscire a capire ciò che l’uomo realmente desidera o di cui ha bisogno. Il cuore è una sorta di capro espiatorio per l’incapacità della ragione di comprendere pienamente se stessa. Poiché la ragione guarda le cose in modo deterministico, definisce anche se stessa e il cuore come sistemi deterministici, ma scarta gli elementi che non sa spiegare, puntando il dito contro di loro in modo un po’ ironico. La ragione incolpa il cuore di sviarla.

Chi comanda? Se il cuore è ridotto a una entità meccanica in azione, e soltanto qualcosa a cui è curiosamente attribuita la colpa di tutti quei desideri e esigenze di cui la ragione rifiuta di prendersi la responsabilità, allora ovviamente è una parte dell’essere umano, e non la sua interezza, che prende la decisione e la pone in atto. La ragione ha effettuato una “rivoluzione” nella quale il cuore è conservato per scopi funzionali e simbolici, ma spogliato di tutta l’autorità nel prendere decisioni. L’idea che il cuore possa “conoscere” qualcosa che sfugge alla ragione è oggi giudicata anacronistica e delirante, retaggio di un oscuro passato. Tuttora noi “incolpiamo” il cuore, scherzando solo per metà.
È una sorta di confusione in cui non è chiaro “cosa” o “chi” comandi. Chi è il “chi” che decide tutto questo? Dov’è la sede della conoscenza? C’è un’intelligenza centrale o qualcosa d’altro? Può questa intelligenza centrale, ammesso che esista, essere responsabile sia delle cose sensate che facciamo sia di quelle che un senso non ce l’hanno, delle risposte intelligenti come di quelle stupide, dei comportamenti razionali e di quelli irrazionali? In altri termini, ciò che una volta era la “tempesta” del cuore è solo un modo per descrivere caratteristiche della ragione molto più complesse e forse non ben funzionanti? E quando ci poniamo questa domanda, cosa dentro di noi fa sì che ce la poniamo? La ragione è in grado di oggettivare il cuore? La ragione è in grado di oggettivare se stessa? In che modo conosciamo? E se conosciamo una cosa, quale “parte” di noi realizza tale conoscenza?
Ci deve essere un altro modo di considerare la questione.

Se qualcosa non torna. E infatti c’è: si tratta di accettare il fatto che la ragione non sia nostra, che il cuore non sia nostro, ma che entrambi siano dati, che entrambi non siano proiezioni dall’interno di noi – non possono esserlo, in quanto non si può tracciarne un’origine – ma che provengano da qualche altra parte; si tratta di accettare che il nostro modello meccanicistico della realtà – che deriva da una concezione oggettivata della razionalità, implicita nel mondo creato dall’uomo – non ha senso se applicato all’uomo stesso. Illusoriamente, ha un senso parziale, ci rende capaci di raggiungere una certa conoscenza di base di noi stessi, o una mediante la quale – se accettiamo di comportarci come le macchine che abbiamo creato – diventiamo capaci di formulare una accettabile teoria della realtà e del nostro vivere in essa.
In realtà, è questo che don Giussani tenta di criticare quando ci dice, con insistenza e quasi con una punta di irritazione, che noi non ci facciamo da soli; che nessuna delle spiegazioni a cui siamo arrivati riguardo alla nostra origine e al nostro agire “momento per momento” è totalmente persuasiva; che nessuna “intelligenza centrale” può essere individuata tranne che come una metafora simile a quella alla quale, nella cultura moderna, la ragione umana ha ridotto le funzioni extra-meccaniche attribuite al cuore. Io non mi faccio da solo; non c’è un “io” che funzioni in questo modo. Se cerco l’“io” in quanto autore di me stesso, è come se rovistassi in un pacchetto, senza trovare altro che la confezione. Ovviamente c’è dentro qualcosa, un “io” di qualche genere, che non sembra essersi originato da sé. Solamente se si considera l’“io” che batte e che pensa come la proiezione di qualcosa d’altro, tutto inizia ad acquisire un senso. Se l’essere umano è considerato solo come un insieme di processi meccanicistici e deterministici nei quali la ragione eccelle, occorre un processo di censura per escludere l’idea di un “fantasma” che deve trovarsi al centro della macchina: il cuore. Questo fantasma è il vero “io”, quell’essenziale e originario elemento del cuore umano, che il chirurgo dei trapianti non può trovare.
Questo “io” non è solo là dentro, ma sembra in società con qualcos’altro. Nel cuore di ognuno di noi c’è ancora qualcosa che non si spiega. Di più: sembra che esista qualcosa che non può essere ridotto, né compreso secondo i metodi che sembrano funzionare per ogni altra cosa, o almeno per la maggior parte delle cose che affrontiamo nella nostra vita di ogni giorno. Forse potremmo dire che, per definizione, il cuore è definibile come incapace di comprendere se stesso.

L’inizio dell’umanità. E qui il cuore si rivela nella sua vera natura; il luogo di ciò che nell’uomo non può essere ridotto dalla brama umana di una spiegazione, un desiderio che sembra emergere nel cuore stesso. Forse il cuore non ha più diritto della ragione ad affermare se stesso come centro dell’essere umano. Forse esso è davvero una metafora. Ma se così è, è una metafora oltre la quale non sembra esistano ulteriori possibilità. Di conseguenza, sembra che il cuore renda drammatico il mistero del dilemma centrale dell’uomo, ma sembra offrire anche un inizio di ragione sfruttabile e affidabile. Il cuore è l’entità in cui la mia umanità sembra per la prima volta emergere, iniziare, avere origine. Quindi se si tratta di una metafora, è attraverso di essa che scopriamo l’unico fondamento che risulta adeguato. Ma anche questo, se esaminato, non riesce a darsi l’origine, la sua voce interiore, l’impulso che genera il suo pulsare.
Dunque, c’è questo paradosso: quell’“io” che si trova al centro di ogni essere umano non è una sorta di autorità autonoma, separata e ben localizzata, ma una specie di “società” tra ciò che è evidente e qualcosa che sembra non esserci. Il mio “io” sono io, certo, ma anche qualcosa di misteriosamente altro. I “miei” desideri non sono completamente “miei” nel senso che non sono la risultanza di una chiara equazione tra le mie ovvie esigenze e quello che ho scoperto essere le mie possibilità immediate. Essi derivano anche da questa alterità e ciò porta a quella confusione che la ragione umana ha chiamato irrazionalità. Il cuore, fonte di un desiderio che mi accompagna da quell’oltre da cui sono venuto, mi parla ogni istante di ciò che l’io cerca davvero, di ciò che vuole veramente, di ciò che veramente è.

Un punto di partenza. Qui dobbiamo fermarci per evitare un corto circuito. L’idea di ciò che il cuore desidererebbe non può, e non deve, suonare come un’ingiunzione sentimentale o morale o suggerire una direzione già stabilita. Si tratta di un punto di partenza, non di una indicazione di pentimento. Se saltiamo immediatamente alle conclusioni, chiudiamo la discussione, creiamo un cortocircuito, micidiale quanto tutte le riduzioni deterministiche che abbiamo considerato. No. A questo punto dobbiamo fare un respiro profondo e prepararci per il vero viaggio. Il cuore ci farà capire la natura e l’intera portata del nostro desiderio. La ricerca deve essere profonda e totale. Essa inizia con la vera domanda che scandisce con il suo ritmo ogni giorno della nostra vita.

John Waters

Fonte

Solo il cuore conosceultima modifica: 2010-07-30T22:55:49+02:00da ritina5
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