COME UNA MADRE A RISCATTO DELLE PROSTITUTE
MARINA CORRADI
E9ugenia Bonetti è una suora di 70 anni. Come missionaria della Consolata ha passato 23 anni in Kenya. Poi è tornata in Italia. Una sera del giorno dei Morti, diversi anni fa, stava andando a Messa, quando l’ha fermata per strada una ragazza nigeriana. «Madre, voglio parlarle », fa la ragazza. «Vieni in chiesa con me, dopo mi racconti», risponde la suora – con quell’attitudine dei missionari a non stupirsi mai della faccia di chi li ferma per strada, e nemmeno dei vestiti che indossa. La sconosciuta era una prostituta portata in Italia come altre migliaia, per forza o per disperazione. Però, annientata dal suo “lavoro” di comprata e venduta, voleva liberarsi, e smettere.
È così che una piccola minuta suora lombarda allora verso la sessantina – l’età in cui gli altri vanno in pensione – comincia a mettere su una rete di 110 case di accoglienza gestite da suore di vari ordini, sotto la direzione dell’Unione superiori maggiori italiane. In dieci anni, da quando un articolo della legge sull’immigrazione consente a chi denuncia i propri sfruttatori un permesso di soggiorno per il reinserimento, nelle case e nei conventi di suor Eugenia sono passate cinquemila ragazze (come racconta il servizio nelle pagine interne) e in otto su dieci hanno trovato un lavoro, o hanno scelto di tornare in patria. Alcune, che erano incinte, il figlio se lo sono tenute – è bastato avere una faccia amica accanto. Migliaia di rumene, moldave, africane, venute qui a sedici anni a battere un marciapiedi, educate a una ferrea obbedienza dall’omicidio di qualche compagna trovata ammazzata di botte in una roggia, hanno ricominciato a vivere grazie a suor Eugenia e alle sue compagne. Ma, lo conoscevate il volto di quella suora, e il suo nome?
La cosa singolare è che in un mondo in cui si diventa famosi anche per una parolaccia detta in tv, donne così siano, al grande pubblico, quasi sconosciute. Una foresta che cresce non fa rumore, è proprio vero: migliaia di donne liberate dai loro “padroni” possono passare inosservate, come una notizia banale. Ma qualcosa affascina nell’operare di queste donne vestite di nero o di grigio, come invisibili, oppure viste solo nell’immagine stereotipata di chi le giudica delle moraliste, delle bacchettone, creature fuori dal tempo anacronisticamente sopravvissute nella modernità. Ciò che meraviglia è il loro fare pienamente concreto – concrete tanto da sapere accogliere e educare delle ragazze che pochi vorrebbero in casa; ma senza slogan, senza alcun rumore, senza alcun proclama mediatico. Un fare ostinato e invisibile, contro a un visibilissimo, assordante quotidiano rumore.
Sembra la cifra, questo lavorio silenzioso, di un approccio alla realtà che chiameremmo profondamente femminile, e pazienza se qualcuno se ne scandalizzerà. Un’attenzione concreta alla persona che si ha davanti: semplicemente a quella, che sia figlio, alunno, paziente, o una poveretta importata dall’Est come una cosa. Un’accoglienza all’altro che è poi declinazione in forme diverse di un’attitudine materna – altra espressione oggigiorno politicamente scorretta. Il lavoro oscuro delle sorelle invisibili di suor Eugenia come di migliaia di altre, negli asili, negli ospizi, con gli extracomunitari, è una maternità – più forte ancora di quella carnale, giacché è più difficile amare un vecchio o una ragazza della strada, che tuo figlio. Una maternità, e questo spiega perché il mondo non se ne accorge. Ma anche perché, nel silenzio dei titoli, lo stesso mondo ne viene trasformato profondamente, alla radice, in ogni faccia accolta e amata.