LA LIBERTA’ ALLA RADICE DELL’OPERA

 http://www2.unicatt.it/catnews/allegati/10177/gius_lezione2.jpg    La libertà ha la sua prima espressione nel poter educare.

 

Nella vita concreta, la prima libertà non è verso me stesso, per così dire, ma verso chi amo: il figlio, il fratello, ma, cristianamente parlando, il più estraneo di tutti – come quel musulmano che, l’altro ieri sera a Forlì, dopo aver sentito uno di noi presentare il libro Si può vivere così? (cfr. L.Giussani, Si può vivere cosi?, Bur, Milano 2001), è andato a parlargli, ed entusiasta aderiva a quanto aveva sentito; ma era già fratello nostro prima che si facesse avanti. Come è desiderabile, di fronte a chi si ama, la libertà all’educazione, nell’educazione, nell’aiutarlo a entrare in tutta la realtà! È desiderabile per me, quasi più di quanto sia desiderabile per una madre – la madre lo desidera per il figlio. Sarà l’esagerazione dell’amore! Ma non è esagerazione: è la logica dell’amore.

 

Libertà educativa. Non si può giocare politicamente, è vergognoso giocare politicamente con forze che neghino la libertà educativa! A meno che ci si lavori per cambiarle, ma bisogna essere realisti: non deve essere solo un sogno, ci devono essere dei motivi solidi per sperarlo – per sperare nella tua influenza, amico mio, altrimenti perdi tempo, ti illudi, Perciò, la libertà dell’educazione è la questione principale. Se un padre e una madre generano un figlio e non lo educano, verrebbe da usare le parole che Gesù disse a Giuda: «Sarebbe meglio per lui se non fosse mai nato» (Mt 26,24; Mc 14,21) (Gesù lo diceva di Giuda, perché il destino della vita dell’uomo è Lui: Gesù, il Verbo fatto carne, il Mistero fatto carne; e Giuda tradiva questo). La libertà d’educazione riguarda la famiglia non solo quando ha lì i bambini in casa, piccoli; ma quando deve mandarli all’asilo, quando deve mandarli alla scuola elementare, quando deve mandarli alla scuola media, e ancora di più quando li manda alla media superiore e all’università. Sembrano capaci di guidarsi da soli! E invece no! Bisogna assisterli, non con la mano stretta come quando sono piccoli, ma più da lontano; bisogna seguirli, però (come si accende la televisione da lontano col telecomando).

 

Terzo. La giustizia: che esista, in una vita sociale, una giustizia attivata seriamente, lealmente, innanzitutto rispettando quei diritti del singolo, della persona, che hanno caratterizzato la storia della giurisprudenza nella civiltà. La civiltà c’è quando la giurisprudenza rispetta questo, incomincia col rispettare questo. Non si può affermare una giustizia distruggendo il tessuto della vita di un popolo, distruggendo il benessere di un popolo, distruggendo la possibilità di uno sguardo futuro di un popolo, facendo smarrire i cuori più attenti. Non si possono perseguitare i valori primari della persona in nome di un sottile disegno politico: «Abbiamo già vinto», diceva un giudice. Come «abbiamo già vinto»? Prima di giudicare? Che terribile una società dove la giustizia non è giustizia! E perché sia più giustizia occorre innanzitutto che il giudice sia umile, cosciente del suo limite. Lo dico sempre ai ragazzi: «Per essere vero nel rapporto con qualsiasi persona, con qualsiasi cosa, il punto di partenza realistico è che sono peccatore. Allora mi avvicinerò con più rispetto, e con più pacatezza dirò: “ ”, “no”».

 

Quarto. Una vita politica che sia secondo una posizione ideale. Non può un partito essere partito di popolo se non ha un ideale che raggrumi quel popolo. Un popolo è formato attraverso un avvenimento particolare accaduto nel tempo, è unito da un ideale che esso persegue (conosciuto più, conosciuto meno, intuito più, intuito meno). Altrimenti si ha non un popolo, ma un gregge. È la tentazione più grande di chi ha il potere: rendere il popolo gregge; salvando tutte le forme, ma renderlo gregge! Pasolini usava la parola «omologazione» (cfr. P.P.Pasolini, Scritti corsari, Garzanti, Milano 1993, pp. 23, 41, 45ss, 50 e 54). «O popolo d’Italia, vecchio titano ignavo,/ Vile io ti dissi in faccia, tu mi gridasti: Bravo» (G.Carducci, Avanti! Avanti!, vv. 70-71, da Giambi ed epòdi, in Poesie, Garzanti, Milano 1993, p. 167), diceva nei Giambi ed epòdi, da giovane, Giosuè Carducci, sit venia verbis. Una politica che sia preoccupata non di una posizione ideale, ma di «riuscire» attraverso il potere conquistato, è una politica malvagia; e bisogna dirlo ai propri figli, ma prima di tutto a se stessi; bisogna gridarlo ai propri amici, bisogna gridarlo per le piazze e per le strade, scriverlo sul muri.

 

Una politica, dunque, che sia preoccupata di una posizione ideale. Questo stabilisce un’onda educativa, e questo realizza un respiro maggiore di libertà, un respiro più libero, perciò una creatività, una fantasia.

 

Perché non ci sono grandi creatori oggi? Perché è difficile, è più difficile che ci siano? Perché manca lo spazio per il respiro creatore. Bisogna che la politica realmente sia fatta da gente (e questo è un dovere nella scelta di chi ci rappresenta!) che abbia veramente interesse per l’uomo. È una premessa: dopo parleranno di economia, di ferrovie, di esercito, di servizi segreti; ma prima di tutto devono dimostrare un interesse per l’uomo, avere un interesse per l’uomo. Interesse per l’uomo: questo rende la politica seguace di Dio, perché Dio è il Signore, il politico per eccellenza, chi ha il potere – grazie a Dio – ultimamente irresistibile.

 

La religiosità, che è il punto suggeritore di tutta la nostra posizione, non è una cosa astratta: viene da molto lontano, da quando siamo stati creati, fatti, da prima dell’istante in cui padre e madre ci concepivano, ma dentro quelle viscere. Dentro quelle viscere c’era un’altra Presenza, che, come dice il Salmo 138 (andate a leggerlo se avete la Bibbia), era presente prima ancora che le viscere di mia madre mi plasmassero (Sal 139/138, 13 ss): viene da lontano, dunque, ma entra fino nei terminali ultimi dei nostri interessi (inter-esse: che gioca nel nostro essere, che c’entra col nostro essere, con me). Certo, la premessa che mi pare più importante è che uno senta se stesso, abbia pietà di sé, abbia ammirazione di sé. E almeno il fatto che io viva, che io esista, mi fa pieno di ammirazione e di stupore. Ammirazione verso chi mi fa, di cui partecipa la mia devozione a padre e madre: a mio papà e a mia mamma (io non ho mai parlato senza ricordarli, mai, in quarant’anni). Don Luigi Giussani

LA LIBERTA’ ALLA RADICE DELL’OPERAultima modifica: 2008-02-21T20:29:36+01:00da ritina5
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