AGENTE SEGRETO DI CRISTO

Oggi post lunghetto; ma è troppo bello e commovente! Lo lascio un po’ di giorni così potrete leggerlo con calma. E avrete modo di pensare…

A Grevinec, i compagni italiani erano attesi: il dirigente del reparto agitazione e propaganda li prelevò all’ingresso del villaggio e li guidò alla sede del soviet rurale dove il primo segretario del comitato distrettuale del Partito e il presidente del colcos li accolsero con parole di circostanza che la compagna Nadia Petrovna tradusse puntualmente.
Peppone rispose recitando il discorsetto che aveva diligentemente mandato a memoria e, alla fine del suo dire, batté anche lui le mani, applaudendo chi l’applaudiva.
Oltre ai pezzi grossi, c’era altra gente e si trattava, come risultò dalle spiegazioni con le quali la compagna Nadia corredò le presentazioni, dei responsabili dei vari settori: allevamento bovino, allevamento suino, coltivazione, frutticoltura, macchinario e via discorrendo.
Il salone delle assemblee dove si svolgeva il ricevimento dava soprattutto l’idea di un magazzino, anche perché l’arredamento era costituito da un rustico tavolo centrale con annesse panche, e da un ritratto di Lenin appeso alla parete.
Il comitato dei festeggiamenti del colcos aveva provveduto a fare adornare il ritratto di Lenin con una frasca verde che girava tutt’attorno alla cornice luccicante di porporina d’oro, ma ciò non sarebbe bastato a rendere caldo e ospitale l’ambiente se la lunga tavola non fosse stata ingentilita da una generosa decorazione di bicchieri vuoti e di bottiglie piene di vodka.

Un bicchierozzo di vodka, buttato giù come fosse un bicchiere di lambrusco, riscalda rapidamente le orecchie e Peppone si trovò, in pochi secondi, col motore al massimo di giri. Cosicché, quando la compagna Petrovna ebbe spiegato che il colcos di Grevinec era uno dei più efficienti avendo raggiunto le massime punte nella produzione del latte, dei suini e dei cereali, domandò la parola e, piantatosi davanti al compagno Oregov, disse con voce ferma, staccando proposizione da proposizione, in modo da lasciare il tempo alla Petrovna di tradurre:
«Compagno, io vengo dall’Emilia: da quella regione, cioè, dove, esattamente cinquant’anni fa, esistevano, uniche in Italia e fra le pochissime del mondo, cooperative proletarie perfette. Una regione con agricoltura intensamente meccanizzata, e con una produzione di latticini, salumi e cereali fra le prime del mondo come quantità e qualità. Al mio paese, io e i miei compagni abbiamo fondato una cooperativa agricola di braccianti che ha avuto l’alto onore di ricevere dai fratelli dell’Unione Sovietica il dono più gradito!…».
Peppone trasse dalla sua borsa di pelle un fascio di fotografie che porse al compagno Oregov, e le fotografie rappresentavano l’arrivo trionfale in paese di «Nikita», il trattore ricevuto in regalo dall’URSS, il trattore stesso in azione di dissodamento sulle terre della cooperativa agricola «Nikita Kruscev» e mercanzia del genere.
Le grandi fotografie girarono da mano a mano e suscitarono in tutti viva impressione, a cominciare dal compagno Oregov.
«Procede l’opera di smantellamento del capitalismo» continuò Peppone «e, se non siamo ancora alla fase finale, siamo però a buon punto e, come potrebbe dirvi meglio di me il compagno Tarocci che appartiene alla mia stessa regione, è fatale che i privilegi dei proprietari e del clero vengano cancellati dalla lavagna della storia e incominci l’era della libertà e del lavoro. Le cooperative agricole modellate sui colcos, oltre alle aziende statali sul tipo dei sovcos, sostituiranno, fra non molto, l’attuale forma di conduzione schiavistica delle tenute agricole e, come è facile capire, è per me di grandissimo interesse conoscere del colcos ogni particolare tecnico e organizzativo. Vorrei quindi che tu, compagno Oregov, pregassi i compagni dirigenti del colcos di Grevinec di mettermi dettagliatamente al corrente dell’esatto funzionamento del colcos in ogni minimo settore.»
Il compagno Oregov fece rispondere che si rendeva conto dell’importanza della richiesta e promise di fare del suo meglio per venire incontro al giustificato desiderio di Peppone.
Poi parlottò coi dirigenti del colcos e, alla fine, la compagna Nadia riferì a Peppone:
«Compagno, il tuo particolare interesse per l’aspetto tecnico e organizzativo è stato riconosciuto da tutti. Ma, se io rimanessi qui a disposizione tua e dei dirigenti del colcos, i tuoi compagni non potrebbero compiere quella completa visita al colcos che è stabilita dal programma. Fortunatamente, fra i tecnici qui presenti, c’è qualcuno che potrà spiegarti ogni cosa senza bisogno d’interpreti».
La Petrovna s’interruppe e fece un cenno. Dal gruppo dei dirigenti si staccò un uomo bruno, magro, in tuta da meccanico, fra i trentacinque e i quarant’anni.
«Il responsabile dei reparti meccanizzazione, rifornimenti, coordinamento lavori» spiegò la compagna Petrovna presentando l’uomo a Peppone «Stephan Bordonny, italiano.»
«Stephan Bordonny cittadino sovietico» precisò l’uomo magro, porgendo la mano a Peppone ma guardando la Petrovna. «Cittadino sovietico come i miei figli.»
La Petrovna sorrise per nascondere il suo imbarazzo:
«Hai ragione, Stephan Bordonny» rettificò. «Dovevo dire “d’origine italiana”. Mentre noi proseguiamo la visita, tu rimarrai a disposizione del compagno senatore Bottazzi.»
La compagna Petrovna se ne andò per raggiungere il gruppo e don Camillo fece l’atto di seguirla, ma Peppone lo bloccò:
«Tu, compagno Tarocci, resterai con me e prenderai nota di tutto quanto ti dirò io».
«Agli ordini» borbottò don Camillo a denti stretti.

«Sei membro del Partito?» s’informò Peppone uscendo dalla baracca del soviet a fianco dell’uomo magro.
«Non mi è stato ancora concesso quest’onore» rispose con voce impersonale l’altro.
Era di una gelida cortesia: mentre don Camillo s’affaccendava a prendere appunti su un libretto di note, il cittadino Stephan Bordonny rispondeva con esattezza a ogni domanda di Peppone, ma si notava in lui lo sforzo per cercare d’esprimersi col minor numero di parole possibile.
Conosceva perfettamente il funzionamento del colcos in ogni minimo dettaglio. Citava con sicurezza date e dati. Ma non aggiungeva mai niente di più.
Peppone gli offerse un mezzo toscano ed egli cortesemente lo rifiutò.
Con un semplice «grazie» rifiutò la «Nazionale» offertagli da don Camillo. Siccome gli altri fumavano, trasse di tasca un pezzetto di carta da giornale, un pizzico di makorka e si arrotolò abilmente una sigaretta.
Visitarono il silos per il frumento, poi il capannone dov’erano contenuti i mangimi speciali, i disinfettanti per i trattamenti dei frutteti e gli attrezzi agricoli per il lavoro manuale.
Tutto esattamente ordinato e catalogato.
In un angolo c’era una strana macchina nuova di zecca e Peppone domandò a cosa servisse.
«A cardare il cotone» rispose il cittadino sovietico Stephan Bordonny.
«Il cotone?» si stupì don Camillo. «Con questo clima, voi coltivate il cotone?»
«No» rispose l’uomo.
«E come mai si trova qui?» insisté don Camillo.
«Un errore di smistamento» spiegò l’uomo. «È arrivata al posto di una macchina setacciatrice per la selezione del seme di frumento.»
Peppone fulminò don Camillo con un’occhiata atomica, ma don Camillo, ora che aveva trovato un uncino, ci si aggrappò:
«E voi selezionate il grano con una macchina per cardare il cotone?».
«No» rispose glaciale l’uomo magro. «Usiamo una macchina selezionatrice costruita con mezzi nostri, nella nostra officina.»
«E quelli che hanno ricevuto la selezionatrice, con cosa cardano il cotone?»
«È cosa che non interessa il colcos di Grevinec» rispose l’uomo.
«Errori di questo genere non dovrebbero succedere» osservò vilmente don Camillo.
«La vostra patria è trecentomila chilometri quadrati» comunicò con voce ufficiale l’altro. «L’Unione Sovietica è oltre ventidue milioni di chilometri quadrati di superficie.»
Intervenne Peppone:
«Stephan Bordonny» disse spedendo una zampata sul piede sinistro di don Camillo «sei tu l’addetto a questo magazzino?».
«No, io collaboro. Vi interessano gli allevamenti di bestiame»
«Mi interessa il parco macchine agricole» rispose Peppone.
Il capannone delle macchine agricole non si presentava bene perché non assomigliava neppure a un capannone ma era una gran baracca con le pareti di legno e paglia e il tetto coperto di rugginosa lamiera.
Però, una volta entrati, c’era da rimanere a bocca aperta. Sul pavimento di terra battuta non c’era un bruscolo e le macchine, perfettamente ordinate, erano tirate a lucido come per l’esposizione campionaria.
Il cittadino Stephan Bordonny conosceva le macchine una per una, dall’a alla zeta: età, ore di lavoro compiuto, consumo, rendimento, potenza, come se avesse, dentro il cervello, uno schedario completo.
In fondo alla baracca c’era l’officina, l’unica parte costruita in mattoni. Una povera officina col minimo indispensabile d’attrezzi e macchinari, ma ordinata in modo tale da strappare le lacrime a Peppone.
Un grosso cingolato era sotto cura e i pezzi del suo motore si allineavano su un banco. Peppone ne tolse uno, lo guardò, poi guardò il cittadino Stephan.
«Chi è che ha rettificato questa roba?» domandò.
«Io» rispose sempre con indifferenza Stephan.
«Con quella specie di tornio!» esclamò Peppone indicando un vecchio e scassato arnese che poteva ricordare, appunto, un tornio.
«No» spiegò l’altro. «Con la lima.»
Peppone guardò ancora il pezzo. Poi ne tolse su un altro dal banco e lo considerò con pari stupore.
Infisso nel muro, sopra il banco, c’era uno spezzone di ferro e una biella penzolava da esso, legata con un pezzo di spago.
Stephan prese un punteruolo e percosse la biella che risuonò come una campanella.
«Dal suono che manda, si sente se è sbilanciata» spiegò l’uomo deponendo il punteruolo. «Questione d’avere un po’ d’orecchio.»
Peppone si tolse il cappello e si asciugò il sudore:
«Vecchio mondo» esclamò. «Io avrei giurato che quello fosse l’unico a usare questo sistema e, invece, te ne trovo un altro, qui, in mezzo alla Russia!»
«Quello chi?» s’informò don Camillo.
«Il meccanico di Torricella» rispose Peppone. «Era un fenomeno: preparava le automobili per i corridori. Venivano fin dall’estero. Un ometto che, a vederlo, non gli davi quattro soldi. Il secondo anno di guerra, un canchero inglese che voleva colpire il ponte sullo Stivone gli ha centrato la casa. È rimasto sotto le macerie lui, la moglie e i due figli.»
«Uno» precisò il cittadino sovietico Stephan. «L’altro, per sua fortuna, era soldato.»
Il cittadino sovietico Stephan Bordonny aveva parlato con una voce diversa dal solito.
«Mi fa piacere che qualcuno si ricordi ancora di mio padre» aggiunse.

Uscirono senza più parlare dall’officina. Trovarono, fuori, un cielo livido che minacciava tempesta.
«Io abito in quella casa là» disse Stephan. «Ci conviene arrivarci prima che venga giù il diluvio. Lì, aspettando che smetta di piovere, vi potrò fornire tutti i dati che ancora vi servono.»
Arrivarono alla casa proprio quando incominciavano a precipitare i primi goccioloni. Era una casa rustica, povera, ma pulita e accogliente, con una vasta cucina dalle travi annerite e la grande stufa.
Peppone non s’era ancora riavuto dalla sorpresa.
Presero posto alla lunga tavola.
«L’ultima volta che andai all’officina di Torricella» disse Peppone come parlando tra sé «fu nel 1939. M’era capitata una Balilla d’occasione e non riuscivo a capire cos’avesse il motore.»
«Una biella sbilanciata» spiegò Stephan. «L’ho sistemata io. Quelle cosette, mio padre le dava da fare a me. E, poi, andava bene?»
«Va ancora» rispose Peppone. «Allora, quel ragazzino magro col ciuffo nero sempre sugli occhi…»
«Avevo diciannove anni» borbottò Stephan. «Lei non aveva i baffi, allora…»
«No» intervenne don Camillo. «Se li è fatti crescere quando l’hanno messo in prigione per ubriachezza molesta e repugnante e schiamazzi notturni a sfondo antifascista. È in quell’occasione che ha guadagnato l’attestato di perseguitato politico acquistando il diritto di diventare senatore comunista.»
Peppone pestò un pugno sulla tavola.
«Ho fatto anche qualcosa d’altro!» esclamò.
Stephan continuava a guardare don Camillo.
«Eppure» borbottò alla fine «lei non ha una faccia nuova. È anche lei dei paraggi?»
«No» rispose in fretta Peppone. «Abita da quelle parti ma è un importato. Non puoi conoscerlo. Dimmi, piuttosto: come sei arrivato qui?»
Stephan allargò le braccia:
«Perché ricordare quello che i russi hanno generosamente dimenticato?» disse con voce ritornata gelida. «Se vi servono altre spiegazioni sul colcos, sono a vostra disposizione.»
Intervenne don Camillo:
«Amico» disse «non ti preoccupare se lui è senatore comunista. Parliamo da uomo a uomo. La politica non c’entra».
Stephan guardò negli occhi don Camillo e poi Peppone.
«Non ho niente da nascondere» spiegò. «È una storia che sanno tutti, qui a Grevinec, ma, siccome nessuno ne parla, vorrei non parlarne neppure io.»
Don Camillo gli allungò il pacchetto delle «Nazionali».
Fuori era scoppiato il diluvio e il vento buttava rovesci d’acqua contro i piccoli vetri delle due finestre.
«Sono diciassette anni che sogno di fumare una “Nazionale”» disse Stephan accendendosi una sigaretta. «Non posso abituarmi al makorka e alla carta da giornale. Mi spaccano lo stomaco.»
Inghiottì avidamente qualche boccata osservando poi il fumo azzurrino uscire lentamente dalla bocca.
«La storia?» continuò. «Ero soldato dell’autocentro. Un giorno i russi ci presero. Era la fine del ’42; neve e freddo da crepare. Ci spingevano avanti come una mandria di pecore. Ogni tanto qualcuno cadeva: se non si rialzava lo inchiodavano sulla neve fangosa della pista con una pallottola sulla fronte. Arrivò il mio turno e caddi. Capivo il russo e sapevo farmi capire: quando caddi, un soldato russo mi raggiunse e mi smosse col piede: “Alzati!”ordinò. “Tovarish” gli risposi “non ce la faccio più. Lasciami morire in pace.” La fine della colonna – io era uno degli ultimi – era già lontana una decina di metri e incominciava a nevicare. Mi sparò un colpo mezzo metro più in là della testa borbottando: “Vedi di morire alla svelta e di non mettermi nei guai”.»
Stephan s’interruppe: era entrato in cucina un gran fagotto coperto di tela da sacco grondante acqua e, caduta la tela da sacco, si vide una bella donna che dimostrava poco più di trent’anni.
«Mia moglie» spiegò Stephan.
La donna sorrise poi spiegò in fretta qualcosa in una strana lingua e disparve su per la scaletta a pioli che spariva nel soffitto.
«Dio aveva stabilito che campassi» continuò Stephan. «Quando rinvenni, ero in una isba, al caldo. Ero caduto a mezzo chilometro da qui, tra il villaggio e il bosco, e una ragazza di diciassette anni, tornando dal bosco dove era andata a far legna, aveva sentito dei lamenti uscire da sotto un mucchietto di neve. Era una ragazza robusta: mi aveva agguantato per il bavero del cappotto e, senza mollare la fascina che portava in spalla, m’aveva trascinato fino alla sua isba, come un sacco di patate.»
«Buona gente, i contadini russi» osservò Peppone. «Anche Bagò del Molinetto è stato salvato così.»
«Sì» riconobbe Stephan «ne hanno salvati parecchi, dei disgraziati come me. Però quella ragazza non era russa, ma polacca. L’avevano portata qui assieme al padre e alla madre perché c’era bisogno di gente che lavorasse la terra. Mi diedero da mangiare quel poco che avevano e mi tennero nascosto due giorni. Poi capii che la cosa non poteva durare e, siccome io e la ragazza riuscivamo a capirci bestemmiando il russo, le dissi d’andare dal capo del villaggio a spiegare che un soldato italiano disperso le era capitato in casa da poche ore. Le dispiaceva, ma andò. Ritornò di lì a poco assieme a un tizio armato di pistola e a due altri armati di fucile. Alzai le mani e mi fecero cenno di uscire. La capanna della ragazza polacca era la più lontana dal centro del villaggio e dovetti camminare un bel pezzetto sempre con le armi puntate alla schiena. Arrivammo finalmente nello spiazzo dove avete visto il silos. Un camion carico di sacchi di grano era lì e un vigliacco maledetto lo stava assassinando per rimetterlo in moto. Mi dimenticai il resto e pensai soltanto al camion; mi arrestai e mi volsi al capo: “Tovarish” gli dissi “quello scaricherà le batterie e non riuscirà più a rimetterlo in moto! Ordinagli di smetterla e di spurgare prima la pompa”. Il capo, sentendomi parlare in russo, rimase a bocca aperta, poi esclamò duro: “E cosa ne sai tu?”. Gli risposi che era il mio mestiere. Il maledetto continuava ad assassinare le batterie che già incominciavano a tirare gli ultimi. Il capo mi spinse avanti con la canna della pistola e, quando fu arrivato al camion, si fermò e gridò all’autista di smetterla e di guardare la pompa. Dal finestrino della cabina venne fuori la faccia melensa di un ragazzotto vestito da soldato. Non sapeva neanche di che pompa si trattasse. Era la prima volta che guidava un diesel. Gli dissi di darmi un cacciavite e, avutolo, tirai su il coperchio del cofano e, in quattro e quattr’otto, spurgai la pompa d’iniezione. Poi riabbassai il coperchio e gli allungai il cacciavite. “Adesso va” gli dissi. Dopo due secondi, il camion partiva.
«Mi portarono in una stanzetta della baracca del soviet e lì mi chiusero. Chiesi una sigaretta e me la diedero. Tornarono dopo dieci minuti e mi fecero uscire spingendomi, sempre con la bocca dei fucili contro la schiena, fino a una tettoia dove erano riparati alla bell’e meglio trattori e macchine agricole. Il capo m’indicò un cingolato e mi domandò perché non andasse. Feci portare dell’acqua bollente, riempii il radiatore e provai la messa in moto. Scesi subito: “C’è una bronzina fusa” spiegai. “Bisognerebbe smontare tutto, rifare la bronzina e rimontare. Ci vuole tempo.” Con quei quattro arnesi malandati che mi misero a disposizione, dovetti lavorare come un pazzo ma, quarantott’ore dopo, io stavo finendo di rimontare l’ultimo pezzo. Fu allora che arrivò un ufficiale con due soldati armati di parabellum. Rimasero a contemplarmi e, quand’ebbi finito e il radiatore fu pieno d’acqua bollente, io salii sul trattore. Dio aveva stabilito di salvarmi a ogni costo: il motore attaccò subito e marciava come un orologio. Lo provai con un giretto attorno alla tettoia, poi lo rimisi al suo posto. Mi pulii le mani con uno straccio, saltai giù e mi presentai all’ufficiale a braccia levate. Mi scoppiarono a ridere in faccia. “Te lo lasciamo, compagno” disse l’ufficiale al capo. “Sotto la tua responsabilità. Se scappa, paghi tu.” Allora mi misi a ridere io. “Signor capitano” risposi “la Russia è grande e io, al massimo, potrei scappare fino a quell’isba laggiù dove c’è una bella ragazza che mi piace molto, anche se mi ha denunciato al segretario del comitato distrettuale del Partito”. L’ufficiale mi guardò: “Tu sei un bravo lavoratore italiano: perché sei venuto a combattere i lavoratori sovietici?”. Gli risposi che ero venuto perché mi ci avevano mandato. Comunque, io ero capo meccanico dell’autocentro, e gli unici russi che avevo ammazzato erano i due polli finiti sotto le ruote del mio camion…»

Fuori il diluvio era diventato una vera burrasca. Stephan si alzò e andò a parlare in russo dentro un telefono militare da campo che era in un angolo. Tornò di lì a poco:
«Dicono che potete rimanere qui: gli altri sono rimasti bloccati alla stalla numero tre che è a casa di Dio».
Tornò a sedersi.
«E allora?» domandò don Camillo.
«Allora io incominciai un lavoro infernale perché rimisi a posto tutte le macchine, sistemai l’officina e la rimessa e, quando potei cominciare a pensare a me, la guerra era finita da due anni. Il padre della ragazza polacca era morto e io sposai la ragazza. Poi passarono degli altri anni e fu concessa la cittadinanza sovietica a me e a mia moglie.»
«E non hai mai pensato a tornare a casa?» insinuò don Camillo.
«A fare che? A vedere il mucchio di calcinacci sotto il quale marciscono mio padre, mia madre e mio fratello? Qui, adesso, mi trattano come uno dei loro. Anzi, meglio, perché io lavoro e il mio mestiere lo so fare. Chi si ricorda di me, laggiù? Sono scomparso nel niente, come uno dei tanti dispersi in Russia…»
Avvenne, a questo punto, una confusione maledetta e la porta si spalancò di botto lasciando entrare, assieme a uno scroscio d’acqua, una strana bestia, una specie di millegambe dalla pelle scura e viscida.
Con un urlo, la moglie di Stephan, balzata fuori da chi sa dove, si precipitò verso la porta e la richiuse. Allora la pelle viscida del mostro cadde e, liberati dallo sbrindellato telone cerato sotto il quale s’erano riparati dalla pioggia, apparvero sei bambini uno più bello dell’altro e in perfetta scala, dai sei ai dodici anni.
«Amico, accidenti quanto sei disperso in Russia!» esclamò don Camillo.
Stephan sbirciò ancora don Camillo:
«Eppure» ripeté «io vi devo aver visto da qualche parte».
«Probabilmente no» rispose don Camillo. «Comunque, anche se fosse, dimenticati d’avermi visto.»

Erano sei bambini educati: starnazzavano come gallinelle ma bastarono tre parole della madre per ammutolirli. Si misero a sedere tranquilli nella panchetta attorno alla stufa chiacchierando a bassa voce.
«Sono piccoli» spiegò la donna con un italiano strano, ma chiaro. «Avevano dimenticato la nonna malata.»
Don Camillo si alzò.
«Vorrei salutarla» disse.
«Sarà molto contenta» esclamò sorridendo la donna. «Non vede mai nessuno.»
Salirono per la scaletta a pioli e si trovarono in una bassa stanza a soffitta. Una vecchietta striminzita giaceva su un lettuccio dalle lenzuola candide, senza una piega.
La moglie di Stephan le parlò in polacco e la vecchia le bisbigliò qualcosa.
«Ha detto che il Signore benedica chi visita gli infermi» spiegò la moglie di Stephan. «È una vecchia donna e bisogna perdonare se la sua mente è ancora nel passato.»
Sopra la testiera del lettuccio, appesa al muro, era un’immagine e don Camillo si avvicinò curioso.
«È la Madonna Nera!» esclamò.
«Sì» spiegò sottovoce la moglie di Stephan. «È la protettrice della Polonia. I vecchi polacchi sono cattolici. Bisogna capire i vecchi.»
La moglie di Stephan s’esprimeva con molta cautela e un vago timore era nei suoi occhi.
Peppone risolse la situazione:
«Non c’è niente da perdonare» affermò. «In Italia sono cattolici non solo i vecchi ma anche i giovani. L’importante è che siano onesti. Noi avversiamo solo i maledetti preti che, invece di fare i ministri di Dio, fanno i politicanti.»
La vecchia le sussurrò qualcosa all’orecchio e la moglie di Stephan, prima di parlare, lanciò un’occhiata interrogativa al marito.
«Non sono qui per farci del male» la rassicurò Stephan.
«Vorrebbe sapere…» balbettò la donna arrossendo «vorrebbe sapere come sta… il Papa.»
«Anche troppo bene!» rispose ridendo Peppone.
Don Camillo, dopo aver armeggiato sotto il giubbotto, trasse un cartoncino e lo porse alla vecchia che, dopo averlo guardato con occhi sbarrati, tirò fuori faticosamente dalle coperte una piccola mano tutta ossicini e lo afferrò.
Poi parlò concitatamente nell’orecchio alla figlia.
«Dice se è proprio lui» tradusse con l’ansia nella voce la moglie.
«Lui in persona» confermò don Camillo. «Papa Giovanni vigesimoterzo.»
Peppone impallidì e si guardò attorno preoccupato, incontrando gli occhi stupiti di Stephan.
«Compagno» gli intimò don Camillo afferrandolo per un braccio e spingendolo verso la porta. «Scendi assieme a lui e andate a vedere come piove a pianterreno.»
Peppone tentò di protestare, ma don Camillo tagliò corto:
«Non t’impicciare, compagno, se non vuoi avere dei guai».
Rimasero soli don Camillo, la moglie di Stephan e la vecchietta.
«Dille che può parlare perché io sono cattolico come lei» ordinò perentorio don Camillo.
Le due donne parlottarono a lungo quindi la moglie di Stephan riferì:
«Dice che vi ringrazia e vi benedice. Ora, con quell’immagine che le avete dato, si sente maggior forza nell’aspettare la morte. Ha sofferto molto, vedendo mio padre morire come un cane, senza la benedizione di Dio».
«Ma avete dei preti che girano liberamente e arrivano fin qui!» si stupì don Camillo.
La donna scosse il capo:
«Sembrano preti, ma non dipendono da Dio ma dal Partito» spiegò. «Non sono buoni per noi polacchi.»
Fuori pioveva che Dio la mandava.
Don Camillo si strappò il giubbotto, cavò dalla finta stilografica il Crocifisso dalle braccia pieghevoli, l’infilò nel collo d’una bottiglia e lo dispose in mezzo al tavolino che era contro al muro, a fianco del lettuccio della vecchia. Trasse il bicchierino di alluminio che fungeva da Calice.
Un quarto d’ora dopo, allarmati dal lungo silenzio, Peppone e Stephan salivano, si affacciavano alla porta della soffitta e rimanevano senza parola: don Camillo celebrava la Santa Messa.
La vecchia, a mani giunte, lo guardava con occhi pieni di lagrime.
Quando la vecchietta poté ricevere la Comunione parve che la vita le rifluisse d’improvviso impetuosa nelle vene esangui.
«Ite, Missa est…»
La vecchia parlò convulsa all’orecchio della figlia che, d’un balzo, raggiunse il marito:
«Reverendo» disse ansimando «sposateci davanti a Dio. Ora siamo sposi soltanto davanti agli uomini».
Fuori diluviava: pareva che le nuvole di tutta la grande Russia si fossero concentrate nel cielo di Grevinec.
Mancava l’anello, ma la vecchia protese la mano e la consunta vera matrimoniale, un sottile cerchietto d’argento, si infilò nel dito della figlia.
«Signore» implorò don Camillo «non badate se mangio qualche parola o qualche periodo.»
Peppone pareva la classica statua di gesso: don Camillo interruppe un momento il rito e lo spinse verso la porta:
«Spicciati, porta su tutta la banda!».
Ormai la pioggia stava decrescendo rapidamente, ma don Camillo era lanciato e pareva una mitragliatrice: battezzò tutt’e sei i bambini con una rapidità da togliere il fiato.
E non è che, come aveva detto, mangiasse le parole o saltasse addirittura dei periodi interi. Diceva tutto quel che doveva dire, dalla prima sillaba all’ultima. Ma il fiato glielo dava Gesù.

Forse tutto era durato un’ora. Forse un minuto. Don Camillo non lo sapeva: si ritrovò seduto alla tavola di cucina, con Peppone al fianco e Stephan davanti.
Il sole, ora, sfolgorava, e, nell’angolo semibuio della stufa, sfolgoravano ancor più del sole occhi sgranati che cercavano gli occhi di don Camillo.
Don Camillo li contò ed erano sedici: dodici dei bambini, due della madre e due della vecchietta. Ma, questi, non erano incastonati in uno dei visi celati nella penombra della stufa, ma li aveva dentro il cervello don Camillo perché mai aveva visto due occhi guardarlo così e non poteva toglierseli dalla mente.
La compagna Nadia Petrovna comparve sulla porta.
«Tutto a posto?» s’informò.
«Tutto perfettamente a posto» rispose don Camillo alzandosi.
«Siamo grati al compagno Oregov che ci ha messo a disposizione un tecnico competente come il cittadino Stephan Bordonny» aggiunse Peppone stringendo la mano a Stephan e avviandosi verso la porta.
Don Camillo fu l’ultimo a uscire e, giunto sulla soglia, si volse e tracciò un rapido segno di croce sussurrando:
«Pax vobiscum».
«Amen» risposero gli occhi della vecchietta.

G.Guareschi, Il compagno don Camillo, Milano, Rizzoli, 2002, pp. 97-115

AGENTE SEGRETO DI CRISTOultima modifica: 2009-09-23T12:50:33+02:00da ritina5
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